nonna flora

Andrea Vitali, editore e appassionato di cucina, inaugura oggi con un virgolettato la nuova stagione della rubrica “Gli chef di nonna Flora” dedicata soprattutto a sua nonna e alle potenzialità enogastronomiche inespresse del nostro territorio.

Donna Flora (nella foto quella a destra) era una donna esile, un filo, ma solo esteticamente. Il padre, infatti, lasciò la famiglia per andare a Marsiglia e la costrinse già in tenera età a lavorare in quella che era la pizzicheria degli zii dalla parte di mamma Mietta: Cecco ed Esterina Di Piramo. Basti pensare che si racconta che Flora doveva mettere una cassetta di legno sotto i piedi per arrivare al banco dove si servivano i clienti, ma nonostante ciò lei aveva già piglio e capacità di dirigere il personale e trattare con i clienti.

Nella pizzicheria Di Piramo di Viale Forti si assemblavano degli affettati sopraffini e, tra le altre cose, si macellavano i maiali destinati anche all'esportazione, un’attività da otto dipendenti. Flora aveva da subito iniziato a trasmettere la cultura della materia prima e del cucinarla anche a sua sorella Iva, mamma di Dino Pacini, proprietario poi assieme a Cecchino del celebre ristorante Cecco.
 
Come primo nipote, devo dire privilegiato, andavo nei vari alimentari dove passavamo molto tempo, stante la sua maniacale attenzione nella scelta di qualsiasi materia: dagli odori alle carni, sino al pane. Ricordo quante volte mio nonno Vittorio ha provato a sostituirsi a lei negli acquisti e quante volte è stato rimandato dal fornitore perché la qualità non era quella che lei desiderava. Un uomo paziente al quale non restava che fare il trasporto e, da buon amministratore quale era, pagare Rizzieri, fornitore ufficiale di verdura di vari contadini per frutta, polli e conigli, Geggi per le spezie e la celebre mostarda, Romoli per gli affettati e Tongiorgi per le carni.
 
I bolliti e gli arrosti di Flora con i vari sformati agli erbi erano perfetti. La sua cucina? Sana, naturale, autentica, rigorosamente rispettosa delle stagioni -come sua mamma Mietta, anche lei grande cuoca-. Tutto sempre pesato, perfetto anche nella mise in assiette. Le patate fritte con la salvia erano qualcosa di poetico... Tutte uguali e perfettamente fritte, parevano uscite dallo stampo con forma a fiammifero, rigirate una ad una durante la frittura: io poi impazzivo per la salvia. Ricordo ancora come cucinava il pollo nel tegame, che io chiamo d’oro per la lucentezza della pelle: azione che preannunciava la salsa per i crostini, che veniva fatta con le interiora messe a spurgo in acqua e aceto, e solo dopo l’aggiunta della milza di vitello, capperi, acciughe e qualche altro segreto. A me piace tutt’oggi definirlo un paté che si ritrovava poi, per i fortunati che lo ricordano nella versione originale, anche sugli splendidi crostini semi fritti di Cecco, serviti con una selezione di prosciutto, sempre perfetto nelle carni e nella stagionatura.
 
Tratti distintivi e uno stile quello di Flora, che si ritrova appunto anche nella cucina di Cecco, che da bambino ho frequentato assiduamente. Lo zio Dino, come lo chiamavamo io e i miei fratelli, anche se in effetti era cugino “bono” di mio padre, passava spesso da casa e lasciava a mia mamma Gabriella, anche lei cuoca sopraffina, le ricette del ristorante, fino a comporne un ricettario del quale sono oggi particolarmente geloso. Per far capire quanto il rito della cucina fosse importante nella mia famiglia, “Donna Flora” come regalo di nozze a mia mamma fece un forno a gas e la sua grande pentola d'alluminio, appunto come passaggio di consegne.
 
Ricordo come fosse ora i miei furti di crème-caramel negli stampini dal carrello d’acciaio della grande cucina del ristorante Cecco e la mia particolare attrazione verso la straordinaria quantità di pentole d'alluminio, rigorosamente della fabbrica Del Magro, quella con il marchio delle giraffe, sempre perfettamente lucide.
 
La mia passione per l'enogastronomia nel tempo è cresciuta grazie alle possibilità che la mia formazione ed il lavoro mi ha regalato frequentando persone (gourmet), enogastronomi, chef e ristoranti in tutto il mondo di livello assoluto. I migliori stellati. Qui ricordo però anche, con simpatia, gli incontri gastronomici a Milano alla Tavernetta di Elio Niccoli, in via FatebeneFratelli, pesciatino che non dimenticava mai la sua terra e con il quale amavo confrontarmi spesso durante la mia formazione in terra longobarda, insieme al mio tutor d’allora Piero Del Magro.
Come non inserire anche l'amico (abbiamo fatte le scuole elementari assieme), Riccardo di Mason con le sue tradizioni gastronomiche di provenienza piemontese e che tutt'oggi mantiene un modo di fare ristorazione rigoroso, capace di preservare la sua identità, che ha come caratteristiche salienti: ottime materie prime, assemblaggi intonsi e tempi dettati dalle stagioni. Il confronto sull'ossobuco di Mason e quello di Cecco per i golosi era un classico.    
Fra alcuni dei miei mentori enogastronomici e dell’accoglienza, che mi hanno segnato, ricordo Giovanni Lorenzi dell'hotel Adua e in seguito del Grand Hotel La Pace a Montecatini Terme e del SI Restaurant di Charlotte in North Carolina: a lui devo l’avvicinamento agli chef e alle loro cucine e ai maître de sale, e quindi la comprensione di come si può essere un gourmand professionale. Cito poi Daniele e Daniela della superba enoteca Le delizie di Bacco a Como, che mi hanno insegnato a bere al di là dei sommelier e degli enologi, visitando con loro le migliori cantine italiane e francesi. Ci sono poi i coniugi Geneviève e Jean-Andre Charial, dello splendido Relais e Chateux l’Oustau de Baumanière in Provenza, che mi hanno fatto capire come si trattano e si accolgono le persone e come si possono coccolare. E poi i grandi incontri culinari con Ferran Adrià a El Bulli, Alain Ducasse a La Terrasse, Massimo Bottura alla Francescana, ed i meno noti, anche se a due stelle, Giuseppe Mancino del Piccolo Principe, Nino Di Costanzo del Dani Maison d’Ischia. Sino ad arrivare alla brigata contemporanea, prima di Aoristò, capitanata dallo chef Massimo Neri e dal maître Edoardo Chelucci, che sì è poi trasformata nello Sciatò a Serravalle sempre con a capo Chef Neri, dove ricerca e studio sono pratica giornaliera e dove l’attenzione ad una cucina democratica è il primo obiettivo. Inoltre le esperienze nelle cucine cinesi, sud Americane, indiane, russe, grazie ai viaggi. Tutti stimoli infiniti e non facili da archiviare.
 
E poi come non citare il gruppo di amici, del quale faccio parte, e che si è denominato i Vitelloni, gli enogastronauti engagé, che, da ormai vent’anni, ogni venerdì sera esce alla scoperta di trattorie e ristoranti dove la cucina del territorio comanda: un esercizio conviviale che cerca nel territorio un ingaggio anche culturale e rafforza senza ogni dubbio l’amicizia.

Forse la cucina di nonna Flora, di mia mamma Gabriella e di Cecco hanno nutrito il mio gene già lì pronto ad essere sollecitato? Non lo so, certo però è che cibarmi dei ristoranti e del loro backstage, vivere negli alberghi in giro per il mondo, valutarne il servizio e l’estetica, catalogare nel mio cervello i gusti, assemblare prodotti per ricavarne piatti, sono tutte cose che amo fare per me, i miei amici ed i miei familiari. Scriverne qui in dialogo con le immagini della mia compagna AnneClaire, anche lei amante di cucina e di grandi alberghi (basti pensare che ha pensato bene di festeggiare i suoi 40 anni a Copenaghen, al due stelle Noma dello chef danese, con ascendenze albanesi, René Redzepi, che per quattro volte è stato dichiarato il miglior ristorante al mondo), diventa un modo semplice e leggero per fissare il mio pensiero su queste pagine.
Sulle pagine di questa rubrica dalle lontane radici vi racconterò dunque la visita ad alcuni ristoranti, trattorie e locali: qui avremo modo di confrontarci e discutere ricette, piatti e tutto quello che da sempre risveglia la mia curiosità e quella, più in generale, di tutti i buongustai.

Andrea Vitali

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