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Una piccola esposizione gioiello costruita attorno a una sfida artistica e semantica per dire con i fiori cose come: l’ambiguità, la memoria, l’effimero, la bellezza, il risveglio e l’impegno politico.

Al Gucci Museo di piazza della Signoria, dal 13 marzo fino al 20 settembre, è allestita la mostra The Language of Flowers, a cura del direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana, Martin Bethenod. Riunisce le opere di quattro artisti diversissimi per background e scelte espressive, ma accomunati, nel caso specifico, dall’attenzione all’iconografia dei fiori, un tema piuttosto caro alla maison fiorentina.
C’è la fotografa francese Valérie Belin, presente con due opere in cui mescola motivi floreali a volti femminili, enfatizzando la natura incerta e a tratti ambigua della relazione tra natura e artificio, reale e virtuale. C’è l’olandese Marlene Dumas, che, attraverso la raffigurazione pittorica di un bouquet floreale che fluttua sul mare blu, rievoca il ricordo doloroso di un lutto. C’è l’artista plastica marocchina Latifa Echakhch, che partecipa con l’installazione realizzata con gelsomini freschi e, dunque, comunicante anche sul piano olfattivo, ispirata dalla fragilità e dallo slancio delle cosiddette rivoluzioni arabe. C’è, infine, il grande fotografo statunitese Irving Penn, scomparso nel 2009, con due dittici deggli anni ’60, realizzati volgendo la stessa immagine dal colore al bianco e nero.
Si visita in pochi minuti, The Language of Flowers, ma si fatica a lasciarla. Sarà per l’odore dei gelsomini, sarà per il richiamo bisbigliato dai fiori e per la loro capacità di amplificare la forza espressiva dell’arte. O viceversa.

Redazione Floraviva

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